Ognuno di noi ha in casa un libro che, ogni volta che gli capita di prenderlo in mano, lo travolge di domande sulla propria vita e sul proprio operare quotidiano; sicuramente il Vangelo, la Scrittura più in generale. Dostoevskij, Platone, Dante, Aristotele, Manzoni per citare i grandi pensatori del passato. C’è un testo invece, più vicino a noi nel tempo, che, quando viene citato, sento l’impulso di rileggerlo tutto d’un fiato. Ed è alquanto difficile, anche in questo caso, non porsi interrogativi su di sé e sulle cose intorno a sè. Così mi è capitato anche questa volta, quando, alla vigilia della festa di San Gregorio Magno, il 12 marzo, Benedetto XVI, affiancato dal primate anglicano Rowan Williams, lo ha menzionato nella chiesa camaldolese dei Santi Andrea e Gregorio al Monte Celio nel ricordo del millenario della fondazione della casa madre dei Camaldolesi: “…negli anni drammatici della seconda guerra mondiale, gli stessi chiostri hanno propiziato la nascita del famoso Codice di Camaldoli, una delle fonti più significative della Costituzione della Repubblica Italiana”. Prendiamolo in mano questo Codice e proviamo velocemente a sfogliarlo insieme. Subito l’occhio cade a caso sul titoletto di un capoverso: “Limiti dell’azione finanziaria”. Quanto mai attuale. Andiamo avanti, eccone un altro a colpirmi: “Necessità di rinforzare la capacità educativa dei genitori”. Inoltriamoci ancora: “Azionariato del lavoro, cooperazione e partecipazione dei lavoratori”. Proviamo un’ultima volta, capitoletto 71: “La giustizia sociale principio direttivo della vita economica”. Ma cos’è il Codice di Camaldoli? Un codice giuridico? Un testo filosofico? Tentiamo l’impresa di raccontarlo in breve: i testi, gli scritti, i codici vanno citati, non solo invocati. Bisogna immergersi nei loro meandri, gustarne a fondo tutta l’essenza con metodo e fantasia. Ma per carpirne i segreti, iniziamo facendo parlare la storia, “contestualizzandolo” come si è soliti affermare. Eccoci allora all’eremo di Camaldoli, nel Casentino, dal 18 al 24 luglio del 1943, agli sgoccioli dell’epoca fascista – il 9 luglio scatta l’operazione Husky guidata da Sir Bernard Law Montgomery (sbarco delle truppe alleate in Sicilia); il 19 luglio Roma viene bombardata dagli Alleati; il 25 luglio dello stesso anno, infine, il Gran Consiglio del Fascismo mette in minoranza Mussolini votando l’ordine del giorno Grandi; poco dopo Mussolini viene arrestato ed il potere affidato al Maresciallo d’Italia, Generale Pietro Badoglio. La Milizia non reagisce. La radio trasmette la notizia alle 22.45. È l’epilogo della dittatura fascista in Italia. Ed è proprio nella frenesia di quei giorni difficili ma carichi di grande speranza, che un gruppo di giovani (non quarantenni, giovani sul serio!) del Movimento dei Laureati Cattolici guidati da mons. Bernareggi, vescovo di Bergamo, dà origine e prende parte ad una “settimana di cultura religiosa” durante la quale vengono formulati ben 76 enunciati sulla dottrina sociale cattolica, seguendo implicitamente il motto dei Camaldolesi Ego Vobis, Vos Mihi, sintesi perfetta della formula di alleanza tra Dio e il suo Popolo. Parte da qua e continua poi nello stesso anno a Roma, in riunioni clandestine, la stesura di quel documento dato alle stampe nell’aprile del 1945 e che oggi conosciamo come Codice di Camaldoli. La casa nella quale si tenevano le riunioni era quella di Sergio Paronetto e gli ospiti più assidui erano Pasquale Saraceno ed Ezio Vanoni, tre economisti cattolici, tutti e tre nati nella nostra Morbegno. Ma non mancarono studiosi ed esperti anche in altri campi: un giurista, Ludovico Montini (fratello del futuro papa Paolo VI); un filosofo del diritto, Giuseppe Capograssi; due teologi, Emilio Guano ed Ulpiano Lopez; un pedagogista, Gesualdo Nosengo, che curò il capitolo sull’educazione. Giovani, laici, cattolici. Mossi da obiettivi capaci di attualizzare e rafforzare l’idea democratica di una nuova Italia, renderla capace di confronto effettivo e alla pari con le “grandi potenze”, secondo una visione intimamente cristiana, davvero cattolica, universale, arricchita e confortata dai testi di Pio XI e dai celebri radiomessaggi di Pio XII citati nel Codice stesso. Bisognosi, allora come oggi d’altronde, di una classe politica formata dai “migliori”, in greco aristoi. Paradossale ma del tutto logico: democrazia esige aristocrazia. E noi, oggi, di fronte a questo pozzo stracolmo di idee come ci poniamo? Innanzitutto, sembra banale ma è doveroso chiedercelo, lo conosciamo? Domande retoriche le mie, ma dinanzi alle righe conclusive del Codice di Camaldoli che vi riporto, non si può restare indifferenti, si deve prendere una posizione chiara con se stessi; il rischio è quello di arrendersi all’opinione dominante, ai falsi maestri che hanno un’infarinatura di tutto e che non approfondiscono nulla con l’esperienza, al riflesso anziché alla riflessione, in definitiva alla negazione della libertà: “ogni cristiano deve sentirsi di fronte a quest’opera suprema di salvezza della civiltà un apostolo e un martire cioè un testimone, e quindi sentire in sé la responsabilità non solo della sua vita e di quella della sua famiglia o del suo gruppo, ma della salvezza della intera comunità umana. Ogni cristiano deve perciò mostrare con la sua condotta nella vita privata, professionale e pubblica la sua convinzione che l’idea evangelica può essere strumento di affermazione, liberazione e giustizia per i singoli come per i popoli e che la cattolicità al di sopra delle distinzioni di razza e di nazionalità, tende a realizzare concretamente la comunità del genere umano nella fraternità di tutti gli uomini.”
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