La moneta […] è stata in primo luogo inventata per gli scambi; il suo uso naturale e primo è dunque di essere utilizzata e spesa negli scambi. Pertanto è in sé ingiusto ricevere un prezzo per l’uso del denaro prestato (Tommaso d’Aquino). Nummus non parit nummos, cioè il denaro non genera denari. La schiettezza di questo passo della Summa potrebbe essere sufficiente per decifrare l’economia dei nostri giorni. Ritornate subito a quanto avete appena letto; in effetti potrei fermarmi qua, vero? Certo, gli insegnamenti di San Tommaso riguardo i prestiti fruttiferi andrebbero approfonditi, ma non è questo il momento, per ora, di affrontare l’antica diatriba sulla liceità dell’interesse, sullo sconfinamento nell’usura, sulle profonde e interessantissime differenze tra la finanza cristiana medievale, ebraica e islamica. Di fronte a queste parole inequivocabili possiamo però ben scorgere sia le cause di questa possente crisi del capitalismo occidentale sia una sua potenziale soluzione generale: il ritorno della finanza al servizio dell’economia reale e la rinuncia volontaria delle economie mondiali a congegni e contratti speculativi estremi che, come quei giochi d’azzardo recentemente portati alla nostra attenzione dal Vescovo Diego, creano dipendenza e generano bugiarde illusioni. Eppure, scomodando Shakespeare, c’è qualcosa che ancora non torna in quella che dovrebbe esser la via d’uscita da questa “cadaverica immensità della notte buia”: il capitalismo finanziario non solo ha letteralmente rovesciato le priorità elementari dell’homo oeconomicus, ossia la priorità del lavoro (inteso nell’ampio senso dell’attività dell’uomo come magistralmente esposto nella Laborem Exercens di Giovanni Paolo II) sul capitale, ma addirittura utilizza il debito come strumento primario di ricchezza. Come può, infatti, uno Stato europeo, senza far nomi, pagare il 7% di interessi sul debito quando quei soldi investiti in attività reali, rendono l’1%? È necessario uno sforzo sovraumano che nell’attuale contesto mondiale è impensabile. Ma veniamo a noi, al nostro quotidiano; cosa possiamo fare oltre a forzare noi stessi nell’apprendimento di qualche concetto di economia politica? Oltre a insistere perché, finalmente, nei licei, classico e scientifico, si attivino corsi ad hoc di economia. Oltre a pretendere che nei Seminari, ai nostri futuri preti, vengano presentati i principi base del vivere economico illuminati dalla sempre attuale Dottrina Sociale. Se è vero che, come sentiamo ripetere ossessivamente intorno a noi, il più importante criterio di misura della vita buona sia la ricchezza e il potere che essa porta con sé, siamo di fronte a una richiesta alta e difficile perché mette in gioco personalmente noi stessi e ci chiede di andare controcorrente: non possiamo cambiare ciò che è accaduto, possiamo solo fare delle scelte diverse e migliori; ed è proprio all’intero di questa crisi che esiste una possibilità per il risveglio del cittadino rispetto al consumatore. Partiamo da qui, dalle nostre case, dalle nostre scelte personali, familiari, sul posto di lavoro, in parrocchia, riscopriamo la buona pratica dell’esame di coscienza e alleniamoci strenuamente, favoriti dal periodo quaresimale, nella lotta contro le tentazioni di avidità e accumulo ma anche contro quelle di avarizia e di sperpero, contro la volgarità dell’indebitarsi per beni di consumo futili, in definitiva contro quello che John Maynard Keynes, celebre padre della macroeconomia, definì come l’umano “desiderio morboso della liquidità”. Nel mezzo sta la virtù.
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