Con l’accordo raggiunto nella notte tra il 17 e il 18 dicembre tra i ministri dell’economia degli Stati membri dell’Unione Europea riguardo all’istituzione di un’unione bancaria, è tornata in auge nel dibattito quotidiano la spinosa questione della cessione di sovranità. Senza addentrarsi troppo nei dettagli, con questa intesa i ministri dell’economia degli Stati membri hanno dato vita ad un fondo salva banche unico che sarà utilizzato per aiutare gli istituti creditizi in difficoltà e, nel caso in cui sia troppo oneroso salvare una banca piuttosto che farla fallire, un comitato fatto da rappresentanti degli stati membri suggerirà allo Stato nazionale della banca come decidere in merito. Partendo da questo esempio, si nota come l’ultima parola in capitolo riguardo al fallimento della banca in difficoltà resti allo Stato e non alla Commissione europea, estromessa dal sistema: per quanto la fase consultiva e implementativa precedente la decisione sul fallimento pilotato di una banca sia articolata attraverso organi europei, la delega di sovranità statale resta marginale in quanto è lo Stato ad avere l’ultima parola.
L’evoluzione storica dell’Unione Europea ha portato una crescente cessione di sovranità dei poteri decisionali dal livello statale a quello sovranazionale europeo. Tuttavia è interessante notare come il termine “cessione” venga usato impropriamente: delegando i poteri decisionali ad un organo sovranazionale nel quale, o sono presenti membri dell’esecutivo nazionale (il Consiglio dell’UE è formato dai ministri nazionali), o sono presenti cittadini eletti democraticamente su base territoriale (il Parlamento europeo), la sovranità non viene ceduta a soggetti estranei ma condivisa all’interno di organi in cui una rappresentanza statale (in termini di rappresentanti effettivi e dunque di difesa degli interessi nazionali) è continuativamente garantita. Se inoltre aggiungiamo che ogni singola ulteriore delega di potere a livello europeo deve essere avallata da una base giuridica il più delle volte contenuta in Trattati firmati e ratificati dagli Stati, possiamo ben intuire l’eccessiva enfasi che parte del panorama politico italiano utilizza riguardo alla “cessione” di sovranità “imposta” da Bruxelles. “L’Europa lo chiede” suona così simile a un “Dio lo vuole” di altri tempi, estremizzando il contesto in maniera banale e patetica.
Ad ogni modo, non in tutte le materie in cui viene riconosciuta una competenza all’UE, sia essa esclusiva o concorrente, ha luogo un’eguale condivisione della sovranità. Per meglio identificare l’entità della sovranità europea e di quella statale nei vari settori politici è utile osservare dove viene richiesta una maggioranza qualificata nelle votazioni del Consiglio dell’UE o dove viene invece domandato un voto all’unanimità. Integrazione europea significa dare all’UE il potere di forzare pochi stati membri recalcitranti a fare quello che la maggioranza chiede per un aumento dell’efficacia dell’azione europea; in altre parole a far evolvere fragili compromessi interstatali legati alle circostanze, in stabili meccanismi decisionali a maggioranza qualificata. Ad esempio, per quanto riguarda l’implementazione della politica estera comune dell’UE, è richiesto un voto all’unanimità all’interno del Consiglio: questo meccanismo dota ogni singolo ministro degli esteri dei 28 stati di un diritto di veto insindacabile sulle scelte europee nel settore e, sebbene il Trattato di Lisbona introduca la possibilità di un’astensione costruttiva nelle votazioni in questo settore – ovvero la possibilità di astenersi in sede di voto senza affossare il processo decisionale -, resta il fatto che la politica estera non sia una materia comunitaria ma bensì intergovernativa. In questo caso è quindi evidente come la condivisione di sovranità sia pressoché nulla e questo spiega chiaramente il motivo per cui l’UE non si sia mai espressa in maniera corale sui conflitti armati che l’hanno vista partecipe da vicino, dalla Serbia del 1992 alla Libia del 2011. Una mancanza di condivisione di sovranità svuota di significato l’azione europea come unitaria e questo è altamente deficitario non solo per l’immagine dell’UE come attore internazionale verso l’esterno, ma anche come effettività delle sue politiche al suo interno. Per questo motivo sarebbe utile, se non indispensabile, chiedere ai nostri politici quali poteri nazionali vogliano condividere a livello europeo e quali no: quando alle primarie del dicembre 2012 sia Renzi che Bersani dissero che volevano battersi per gli “Stati Uniti d’Europa”, poco dissero riguardo ai settori politici in cui avrebbero favorito una maggiore integrazione europea. Se fossero a favore di una votazione a maggioranza qualificata nelle votazioni del Consiglio per l’implementazione della politica estera; se volessero una più profonda armonizzazione del sistema giudiziario penale degli stati europei per dare armi più efficaci all’UE per combattere la criminalità organizzata; se volessero condividere poteri fiscali all’interno dell’UE per articolare in modo più efficiente la propria politica economica, non lo sapeva nessuno. Certo è che la condivisione di sempre più ampi settori decisionali statali significa dover spiegare ai propri elettori il perché di tali scelte e implica l’antipatia di tutta una serie di attori che preferirebbero che il potere restasse unicamente all’interno delle mura nazionali. Tuttavia per raggiungere gli “Stati Uniti d’Europa” il solo nominarli non basta, è anzi necessario un innalzamento del livello del dibattito politico e di maggiore coraggio nello spiegare ai propri cittadini che condividere poteri decisionali può essere la via più breve ad un’autentica realizzazione dei bisogni.
Davide Vavassori
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