Adriano Olivetti – Una Voce dal passato
Spesso si dice che l’Italia dovrebbe ripartire dal suo passato, ovverosia dal suo patrimonio storico-artistico. Ovviamente sono d’accordo. Aggiungerei anzi che l’Italia dovrebbe ripartire anche dal suo passato più astrattamente culturale, dalle persone che sono state in grado di illuminare la via di un paese molto spesso travagliato, lacerato, diviso.
Tra gli altri che hanno dedicato la propria vita a questa missione, ho scelto di abbozzare un ritratto della figura di Adriano Olivetti, il visionario imprenditore (ma anche urbanista, scrittore, politico) di Ivrea a cui bastarono i suoi sessant’anni di vita (nacque nel 1901 e morì nel 1960 di trombosi celebrale sul treno che lo stava portando a Losanna) per segnare indelebilmente la storia dell’industria e dell’impresa italiane.
Questo per forza di cose brevissimo excursus sulla vita e sulle idee di Olivetti si basa prevalentemente sul libro di Giulio Sapelli e Davide Cadeddu, Adriano Olivetti – Lo Spirito nell’impresa, edito da Il Margine, che raccoglie qualche scritto dei due studiosi; in particolare, ho attinto la maggior parte delle informazioni dai tre brevi saggi del professor Sapelli che, oltre ad insegnare Storia Economica all’Università Statale di Milano, è stato in passato, tra le altre cose, un dipendente della Olivetti.
Nel 1945 Adriano Olivetti pubblica il libro L’ordine politico delle Comunità, in cui, analizzando la crisi della società contemporanea, rifiuta sia il liberismo economico più sfrenato sia lo statalismo più asfissiante, progettando invece “una terza via che risponda a molteplici esigenze di ordine materiale e morale lasciate fino ad ora insoddisfatte“.
È evidente anche da questa frase come il passato culturale di Adriano Olivetti sia in realtà di una bruciante attualità. In un’epoca come la nostra, in cui i bastioni del liberismo e dello statalismo sono irrimediabilmente caduti, la terza via olivettiana ci sfida nella creazione di una società “essenzialmente socialista ma che non dovrà mai ignorare i fondamenti della democrazia politica e della libertà individuale“. C’è un’enorme distanza tra la persona e lo stato che può essere colmata solo con l’introduzione di una struttura intermedia, la Comunità. Sapelli trova un’adeguata definizione del concetto di Comunità nell’opera dell’intellettuale cattolico francese Emmanuel Mounier che così lo descrive: “Noi cercheremo di disarticolare il potere in una serie di comunità anche su piani sovrapposti, regolati tra loro dal principio di arbitrato; altre interdipendenti, pur conservando ciascuna una certa autonomia. Così quando un potere più vasto (lo Stato) avrà la tendenza ad abusare della sua autorità, le comunità intermedie che gli sono a lato lo richiameranno all’ordine. Quando invece l’individualismo degli individui o delle comunità più ristrette tenderà a qualche scarto anarchico, le stesse collettività intermedie li richiameranno al loro dovere sociale“. Si incomincia ad intravedere come al centro della Comunità debba esserci la Persona. Attenzione, si parla di Persona e non di Individuo, introducendo così una differenza essenziale. Poiché, mentre l’Individuo è un singolo che agisce per il proprio esclusivo interesse, il lupo tra i lupi hobbesiano, la Persona è invece un uomo con una forte responsabilità morale e sociale.
Ma chi si dovrebbe fare carico di questo passaggio da uno Stato di Individui ad una Comunità di persone? Per Olivetti non ci sono dubbi: deve essere la classe politica a far scattare la scintilla del cambiamento. Una classe politica che deve essere elitaria nel senso migliore della parola, ovverosia preparata, selezionata, competente. Olivetti arriva ad immaginare un’istituzione, a cui si possa iscrivere liberamente chiunque, che coltivi come in un vivaio i migliori talenti della futura classe dirigente. Anche in questo caso si tratta di idee estremamente attuali in una società come la nostra che non è in grado di rinnovare la propria classe politica ed economica.
Su questa sociologia si innesta poi la concezione olivettiana del lavoro che vuole coniugare industria e spirito, macchina ed anima in una nuova prassi dell’impresa. Non c’è evidentemente spazio per affrontare adeguatamente in questa sede una così visionaria idea di modernità e mi limiterò a delinearne l’aspetto più generale.
Olivetti credeva nell’importanza fondamentale della spiritualità anche in una società iper-tecnologizzata; per questo motivo dedicò una buona parte del suo lavoro a ridefinire il rapporto tra l’uomo e la macchina in modo che non si ponesse nei termini di un’alienazione ma di un utilizzo proficuo. Intuì quindi profeticamente la rilevanza sociale del design come interazione tra persona e industria (tutt’ora alcune creazioni olivettiane sono esposte permanentemente al Moma di New York) e comprese, del tutto in anticipo rispetto ai tempi, l’imprescindibilità di una grande progettazione urbanistica (fu presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica).
Adriano Olivetti è stato quindi un grande imprenditore italiano che ha capito, prima di tutti gli altri, come il vero capitale non sia tanto il capitale monetario quanto e soprattutto il capitale umano e sociale che si fonda sulle persone e sulle loro relazioni.
Questo sinteticissimo mio ritratto vuole essere semplicemente due cose. Da un lato un invito all’approfondimento di una figura così importante per la storia italiana, dall’altro la prima pedina di un percorso che ci condurrà, nelle prossime settimane, ad un evento molto importante. Stay tuned.
Buona settimana a tutti!
Mounier che dettaglia il principio di sussidiarietà. Gongolo. Quel subsidium afferre che risale ai tempi dell’esercito romano. Grazie per il ricordo rinnovato di una figura profetica della nostra Italia. Parafrasando la Pivano: sarebbe necessario che invece di dire che Adriano Olivetti è lo Steve Jobs italiano si dicesse che Steve Jobs è l’Adriano Olivetti americano.
Peraltro volevo proprio scriverlo un riferimento a Steve Jobs. Non c’è proprio paragone.
Olivetti la mela se la mangia a colazione.